Ricerca iconica sell'enigma.
Dialogo sull'arte di Simone Geraci

a cura di Michela Ongaretti

Ricerca disciplinare attraverso il nudo antico, o senza tempo, in uno spazio pittorico monocromatico accompagnato da una evidente struttura geometrica. Dettagli virtuosistici e semplicità pura come i colori che sceglie, una pittura piena che spesso gioca con i vuoti del supporto a vista. Questi sono gli elementi del primo sguardo alle opere di Simone Geraci.
Mi hanno portato alla sua osservazione le parole della gallerista milanese Lorenza Salamon, nell’intervista che raccontava una visione professionale e un’idea di bellezza, ben espressa dagli artisti rappresentati. Geraci è stato fin da subito riconosciuto come un talento per via della sua capacità tecnica, ma non solo: è la sua poetica meditativa che ci fa fermare davanti ad un suo lavoro, o meglio il pensiero è avverato attraverso una resa disciplinare forte. Lo spirituale è nelle mani, nei corpi, negli sguardi, la simbologia emerge e ci cela nella rigorosa composizione.
Tre sono le sue gallerie di riferimento in Italia oltre a Salamon Fine Art, dove l’ho visto per la prima volta con “Women in red”, Burning Giraffe Art Gallery di Torino e Quam a Scicli in Sicilia.
Il tempo pare dilatarsi quando un’opera d’arte ci catapulta in quel mondo iconico, che solo quelle linee e i colori costruiscono. Per qualcuno è chiamata in causa la capacità di materializzare reminiscenze da un passato con il linguaggio di ricerca, che per chiamarsi contemporaneo non esclude anzi assimila quello di altri, quello di ieri.
E così accade nel mondo artistico di Simone Geraci, che riconosce come influenze sul suo percorso lo studio del manierismo, Pontormo in primis, la pittura seicentesca spagnola con Velasquez e Ribera, di cui ricorda la commozione davanti all’opera Il tatto al Museo del Prado. Senza dimenticare la lezione della pittura dell’ottocento di Anders Zorn o Mancini, è però la memoria del Novecento che informa maggiormente il suo universo pittorico. Dagli “assordanti silenzi” di Edward Hopper e al mondo intimistico di Felice Casorati, inizia il viaggio nell’arte di Simone Geraci, che accompagna osservazioni ed analisi rispondendo ad alcune domande.

Ancora una volta Artscore si interessa al lavoro di chi si dedica alla figurazione, un pittore e un incisore. Il genuino desiderio di vedere un tipo di arte leggibile su più livelli, apprezzabile anche da parte di chi senza spingersi in astruse interpretazioni, e per la quale sia possibile vedere oggettivamente una differenza qualitativa, mi pare sia condiviso sempre più oggi. Lo dico anche alla luce della conoscenza di molti protagonisti attivi e confermata dalla nascita di manifestazioni come Grandart.
Questo dal punto di vista del mercato, ma per chi produce?

Personalmente non credo che ci sia mai stato un calo di sperimentazione nell’ambito della figurazione o una crescita di autori che ragionano e lavorano attorno ad essa. Esistono numerosi artisti, che con sapienza e perseveranza hanno sempre strizzato l’occhio alla figura e al realismo, senza mai cedere alla tentazione di virare la propria ricerca a linguaggi e maniere dettate dalle mode del momento.

Tra gli artisti contemporanei sono pochi a praticare l’incisione, a renderla attuale in quanto parte di una ricerca unitaria alla pittura, come per te che dimostri la sua vitalità all’interno di un unico processo creativo.
Il nudo come soggetto, che è senza tempo ma che oggi non è mai una scelta solo formale, nel tuo caso porta ad un’indagine introspettiva, acquista una forza diversa attraverso la sua apparizione attraverso il tratto incisorio e nella scelta monocromatica.
Quando ad esempio la stampa è in lacca di garanza come nell’olio, ha una valenza forse più simbolica perché la tua poetica si associa ad un procedimento che l’osservatore sente come antico e “sosfisticato”. Forse anche in virtù della sua rarità contemporanea. A questo si aggiunge il fatto che i modelli provengono dall’osservazione di fotografie degli anni Trenta. Insomma l’ispirazione viene dal passato per portare a visioni “metafisiche”.
Nella tua produzione nasce prima l’incisione o la pittura? O le due cose procedono di pari passo? Ogni volta che dipingi o che incidi pensi ad una versione nell’altra disciplina?

Non penso mai a delle gerarchie tra i vari linguaggi, Mi rifugio vicendevolmente in essi per mantenere sempre costante l’aspetto ludico del lavoro, quando mi stanco di uno mi dirigo verso l’altro e viceversa. All’origine di tutto però c’è il disegno, elemento fondante del mio procedere, ad esso è affidato il ruolo più importante, l’approccio iniziale sul supporto, lo studio delle forme e della composizione. Nasco come disegnatore, ancor prima di diventare pittore ed incisore, al disegno cedo il ruolo di progenitrice, da lui tutto è nato e tutto continua a nascere. Nell’ambito dell’incisione ho chiaramente delle preferenze tecniche, schivo spesso un approccio diretto alla matrice prediligendo le tecniche indirette come l’acquaforte. Ad un approccio iniziale dove il segno, carico d’inchiostro, determinava le forme rappresentate, ha preso piede un procedere per sottrazione molto più simile ai risultati ottenuti attraverso la xilografia. In questa ricerca il segno si svuota, mantenendo il colore naturale della carta, a favore di un piano inchiostrato con un rosso carminio.

Il disegno. E’ chiara la sua importanza nella materializzazione di un’idea e senza di esso non esiste logica formale, ma l’immagine emerge con una resa peculiare anche a seconda del supporto. Dedichi una grande attenzione alla sua superficie: in maniera del tutto libera e “contemporanea” si creano delle integrazioni e dei legami tra il materiale, il soggetto e la sua tecnica. Noto in particolare l’uso dell’ardesia.

Sono fermamente convinto che per un pittore sia fondamentale conoscere al meglio delle proprie possibilità lo strumento e/o il medium che si appresta ad utilizzare. Al pari di un pianista che deve assimilare la struttura del pianoforte, la corrispondenza di ogni tasto alle singole note, così anche un pittore deve assimilare le diverse declinazioni del materiale pittorico; i pigmenti, le vernici, i solventi e il supporto. Questo studio ha il vantaggio inaspettato di scoprire materiali e metodologie con fascinazioni uniche, capaci di suggerire nuovi sviluppi per la propria ricerca. Conferisce un ventaglio maggiore di possibilità per dar forma all’idea progettuale iniziale.
Questo è stata per me l’ardesia. Una pietra sedimentaria, caratterizzata da un grigio opaco che rievoca il tono della grafite; una superficie che possiede il giusto grado di porosità che mi consente di lavorare direttamente ad olio senza però perdere le peculiarità viscose del medium. É un materiale che scoprii in accademia, grazie alle sapienti indicazioni di alcuni docenti sullo studio dei materiali pittorici, sulle preparazione dei supporti e sulle sperimentazioni di superfici alternative alla tela o alla tavola. In occasione della mia prima personale, nel 2014 decisi di approfondire la ricerca iniziata con l’ardesia, ed essa acquistò un ruolo importante tanto quanto il soggetto rappresentato.

Hai definito la superficie della pietra “dura chiusa e ovattata” , messa a confronto con il rosso che definisci come colore più “delicato”, potenziante “l’energia ancestrale dell’elemento femminile”. Cosa credi che possa dare in più l’ardesia ai tuoi soggetti? Dal punto di vista espressivo il bisogno di mostrare la sua superficie nuda in alcuni punti, interrompendo la colorazione ad olio, ricerca un valore simbolico aggiunto?

Può indicare il valore di vuoto, horror vacui nei casi in cui vi è un predominare della pietra o, come “leggi” bene tu, divenire censura, “scarnificando” il rappresentato. Alle prime sperimentazioni decisi di ampliare ulteriormente questo gioco di rimandi, innescando nuove relazioni oltre a quelle legate alla natura del supporto e la “dolcezza” dei ritratti e nudi femminili. Cominciai a ridurre drasticamente la tavolozza prediligendo quei pigmenti noti per la loro delicatezza, quali il rosso cinabro e la lacca di garanza. Si apriva dunque una nuova relazione generata dalla natura opposte degli elementi dell’opera, vuoto/pieno, durezza geometrica/dolcezza delle forme e infine tono cupo e opaco da un lato e brillantezza e delicatezza dall’altra.

Su quella ricerca nella dolcezza figurale, interrotta dall’oscurità dell’ardesia o inscritta in geometrie riconoscibili, ho un’idea. Suggerisco che la funzione di queste ultime sia rendere la figura più astratta, che distolgano la vista da una bellezza intrinseca per spingerti a guardare più in profondità, come se il nostro mondo si infiltrasse in quei sogni o pensieri che popolano la mente di quei corpi. Avevi già detto che “sono gabbie, non solo compositive”, e che l’individuo “si ricolloca in un presente immutabile e senza tempo”. Nel caso dell’ardesia: quando su alcuni volti interrompe la rappresentazione della bocca mi domando se possa ricondurre al senso di un blocco emotivo, un’impossibilità di espressione, visto che spesso parli giustamente di introspezione psicologica.

Indichi una lettura abbastanza in linea con le mie intenzioni di ricerca; le geometrie dentro cui si iscrivono i ritratti e/o le figure divengono paesaggi astratti, privi di oggettivi riferimenti al reale che continuano quel gioco di rimandi innescati dal ruolo dell’ardesia. Spesso diventano elementi che imbrigliano ulteriormente le figure in una dimensione altra, portando ,insieme al filtro monocromatico, il rappresento su un piano più profondo. Probabilmente vi è una forma di ossessione verso questa dualità, verso questo continuo scambio tra le parti. La mia convinzione è che per poter definire un “prodotto” opera d’arte sia necessaria la relazione tra due parti ben distinte: il quadro portatore di un racconto e il fruitore capace di entrare in contatto con esso.

A proposito di questa possibilità “empatica” con la rappresentazione, che ruolo ha il colore nello specifico del tuo percorso di ricerca? Come si inserisce il passaggio dal ciclo monocromatico rosso a quello blu?

Ultimamente sto spostando la mia attenzione non tanto sulla relazione dei materiali innescato dall’uso quasi esclusivo della lacca di garanza, bensì sull’idea di filtro monocromo che ha la capacità di portare su una dimensione altra il soggetto rappresentato. La cosa, oltre a garantirmi una tavolozza più ampia con cui lavorare, mi consente di scegliere il tono più indicato in base al progetto espositivo e/o all’opera stessa. Il filtro blu, recuperato da un breve ciclo realizzato nel 2015, nel caso della mostra realizzata alla KoArt di Catania, porta il tutto in una dimensione più onirica e lirica. Mi ritrovo nella citazione di Kandinsky “quanto più il blu è profondo, tanto più fortemente richiama l’uomo verso l’infinito, suscita in lui la nostalgia della purezza e infine del sovrasensibile”.

Definisci la tua opera “orientata all’analisi dell’individuo”, che si configura attraverso la centralizzazione delle figure, finora sempre muliebri. A loro silenzio è affidata la metafora di un enigma, come enigmatico è il meccanismo che porta a comunicare emozioni. Roberto Giambrone ha coniato l’espressione “volti antichi e silenti” Immagino che tu ti ci ritrovi.

È vero che gli sguardi dei miei ritratti come le posture e le gestualità dei miei nudi sono veicoli di un messaggio, credo però che il critico con l’espressione “silente” si riferisse al silenzio meditativo necessario alla contemplazione dell’opera.

In realtà ho anche l’impressione che queste figure rimangano come bloccate in una dimensione, impossibilitate a svelare un mistero. Le vedo come un fantasma poetico, cioè visioni di un’intuizione che semplicemente usa un’immagine concreta come materializzazione di un concetto. E forse a ricordarci che quell’enigma è proprio della psiche umana inserisci elementi concreti e simbolici di dualità. Non nel senso di uno sdoppiamento ma di un dialogo tra due universi: quello di chi osserva e quello di ciò che viene osservato. Il primo si riflette sul secondo e viceversa. Anche la ricerca sullo “sguardo” della figura fortifica il senso del dialogo tra lo spettatore e l’opera, evidenziandone la separazione.

Proprio così. Di quella ossessione per la dualità fanno parte le due dimensioni di cui parli. Aggiungo che la creazione di dittici evidenzia la natura concreta del lavoro, come un gioco autoreferenziale alla natura illusoria della figurazione, in contrasto con i ritratti eterei che vivono senza guardarci, verso un punto di fuga lontano.

Hai prestato la tua arte all’editoria con la casa editrice “ Il Palindromo”, penso alle tavole per Elogio del fantastico, o la copertina di Cosa Vedi di Vanessa Ambrosecchio. Sei anche responsabile della direzione artistica di una sua collana: se prima volevo sapere cosa lasci della tua ricerca in un libro ora ti chiedo se credi che questa esperienza lasci qualcosa nella tua ricerca.

Il Palindromo è una casa editrice palermitana nata dalla coraggiosa e intelligente volontà di Francesco Armato e Nicola Leo. I nostri percorsi si sono incrociati all’inizio del loro primo progetto, una rivista online chiamata “il Palindromo, storie al rovescio e di frontiera”, in cui venne scelto una mia grafica per la copertina. Era una pubblicazione in cui convergevano le diverse letture di scrittori, giornalisti, artisti e illustratori attorno ad un macro tema diverso ad ogni numero, che mirava a contaminare la parola stampata al mondo delle immagini.
In occasione della versione cartacea della rivista/libro, convinto della validità del progetto, ho iniziato ad occuparmi della selezione degli illustratori o artisti da coinvolgere. Da questa esperienza splendida è nata una collaborazione continuativa, fatta di discussioni costruttive, proposte grafiche e compositive dell’oggetto libro. Mi è stata affidata anche la realizzazione delle copertine della collana “Le città di carta”: percorsi tematici attraverso i romanzi che hanno innalzato il paesaggio urbano a protagonista della narrazione. Sono onorato di contribuire a questo genere di progetti, perché mi offrono la possibilità di promuovere il mio lavoro fuori dal sistema dell’arte e mi permettono di fare conoscere mondi e modi di pensare in un linguaggio diverso dal mio. È inoltre uno stimolante banco di prova l’ambito del fumetto e dell’illustrazione, che ha influenzato la mia formazione giovanile, e a cui mi riferisco quando mi appresto a realizzare una o più tavole per una pubblicazione.
Ritrovo il diletto di una pratica a me tanto caro e cruciale nell’avvicinarmi alla ricerca attraverso disegno, pittura e incisione. Sono tutt’ora un appassionato di manga, penso in particolare Takehiko inoue o Akira Toriyama per le loro straordinarie doti narrative e di esecuzione .

Ci sono altri artisti in Sicilia con cui condividi un aspetto della tua ricerca?

La Sicilia è una terra straordinaria, nonostante le sue contraddizioni. Le numerose contaminazioni culturali susseguite nei secoli e la sua insularità le hanno permesso di divenire humus unico per la nascita e sviluppo di personalità molto interessanti in ambito umanistico e creativo, culla di autori che restano in parte svincolati dalle dinamiche continentali. In questo fermento continuano ad avere sviluppo modalità di ricerca che portano un’attenzione particolare ai medium, alle tecniche e alle metodologie ancorate alla tradizione. Credo di condividere con molti miei “colleghi” siciliani quella necessità di far passare un messaggio attraverso la dedizione al modo con cui è realizzato. Penso all’amico e stimato Emanuele Giuffrida e ai tantissimi artisti della Sicilia orientale che orbitano attorno alle gallerie Quam di Scicli e Lo Magno di Modica.

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