Roberto Giambrone

Figure del perturbante

Nella società dello spettacolo, nel nostro mondo globalizzato e iperconnesso, in tempi di affannoso dinamismo digitale le immagini sopravanzano. Se però tutto è immagine corriamo il rischio di non distinguere più le differenze tra l’una e l’altra. Come sosteneva il filosofo Paul Virilio, «un eccesso di visione produce l’accecamento». L’ipervisione nell’arte ha prodotto il rigetto del realismo in pittura, prima in favore dell’astrazione e dell’informe, poi della totale rinuncia alla pittura stessa, nel tentativo di recuperare una certa oggettività del reale con la fotografia o con la concretezza dell’arte povera e delle installazioni. Tuttavia la pittura riemerge ciclicamente, alla ricerca di nuove forme di rappresentazione, tra iperrealismo o estremizzazione del visibile, molto spesso restituendo un’immagine aberrata o aberrante della realtà.
Nella dialettica tra rappresentabile e irrappresentabile, Simone Geraci segue una strada affatto personale, recuperando forme (il ritratto, il paesaggio) e tecniche (la pittura ad olio, l’incisione) della tradizione ma con modalità ed esiti decisamente attuali. I suoi cicli pittorici compongono un immaginario visuale che rappresenta allo stesso tempo un archivio della memoria collettiva e un allusivo album di racconti carichi di suggestioni e di pathos.
Figure femminili silenti, malinconiche e trasognate, riemergono come sopravvivenze del passato, Nachleben direbbe Warburg. Virate in rosso o in blu, queste immagini, sospese su uno sfondo irreale, talvolta un paesaggio nebuloso, si ispirano alle foto in bianco e nero degli anni venti-trenta (i titoli in tedesco inducono a collocarle in un contesto weimeriano). Ma Geraci non cerca un dialogo tra linguaggi diversi; la fotografia è solo un punto di partenza. Semmai, a ben guardare, affiorano consonanze con la pittura manierista, con i ritrattisti spagnoli e con una certa metafisica italiana, che l’artista “trasfigura” includendo nelle opere geometrie stranianti – cerchi, linee, impercettibili sbavature –, o lasciando a vivo il grigio supporto dell’ardesia.
Questa frastagliata composizione dell’opera scoraggia qualunque interpretazione univoca o realistica, accentuandone l’ambiguità e invitando a ricercare, negli intervalli bui, nelle pieghe del non mostrato, significati nascosti. L’osservatore crea, in tal modo, una personale narrazione dell’opera, ricavandola dalla propria memoria, per assonanze visive col proprio immaginario ed empatia emotiva. Le immagini di Geraci risultano in tal modo archetipiche, familiari e distanti allo stesso tempo, possono commuoverci e suscitare contemporaneamente una vaga sensazione di inquietudine, come l’Unheimlichkeit freudiano. Sono figure del perturbante, un po’ funeree – come le vanitas – e un po’ erotiche come gli scatti rubati in un boudoir.
Nell’«età del disgusto», come Jean Clair definisce una certa deriva dell’arte contemporanea, i ritratti di Geraci ci riconnettono ad alcuni elementi essenziali dell’immaginario, in termini formali e diegetici – e non è poco per una forma espressiva data più volte per spacciata.

Roberto Giambrone

SIMONE GERACI - ECHOS_a cura di Cristina Costanzo, Quam, Scicli (RG)_2019