C’è qualcosa di scientifico nella fantasia di Simone Geraci. Un senso rigoroso e puntuale di prospettiva, un’astrazione ‘monocolore’, per uno spazio in cui la memoria
rappresenta la terza dimensione.
Ci conduce agilmente in un’atmosfera confortevole, in cui le variabili sono apparentemente ridotte al minimo, un ambito tanto elementare della rappresentazione che l’elaborazione del pensiero paventa un inganno.
In sostanza, cos’altro ci sarebbe da dire se non: ‘dipinge tutto di blu’, o di questa candida Terra di Siena, poi impagina un ritratto femminile tra alcune geometrie a contrasto di tono? Ma le opere di Simone Geraci sono più sofisticate di una rozza suggestione materica o illustrativa, sono ben più vere dell’ennesima storiella meta-concettuale, sono pittura emozionante anche per chi è dotato di sensibilità ruvida. Perché hanno la forza primitiva del colore, sapientemente scelto a rappresentarli tutti, senza doverli esprimere uno per uno. Perché sono più vere dell’eccesso e più intime dell’oblio.
Simone Geraci non è quell’uomo gentile e simpatico che appare, è invece un insospettabile scienziato della pittura contemporanea. È una personalità ancora più vera perché dipinge per necessità interiore e per amore espressivo, non tanto perché è capace quanto perché è possibile. Direi che la conclusione di un’opera, per Geraci, è come un bel tramonto: emozionante, vero, irripetibile eppure solo la conclusione ‘naturale’ di una singola giornata, a cui seguirà un’altra e un’altra ancora. Simone non è solo un gran lavoratore, rigoroso e stacanovista, ha una visione che va oltre la singola opera (non scontata per tanti altri artisti), perché il centro di gravità del proprio linguaggio è il proprio lavoro. Intendo che, se per certi autori alcune specifiche opere diventano termometri dello stato della propria ricerca, per Geraci invece esiste un inimmaginabile distacco dalle proprie opere, cosa che gli permette di guardare oltre e occuparsi di un linguaggio, o anche solo di un nuovo ciclo. Cosa che gli permette, inoltre, di essere indipendente dalle proprie creazioni, di guardare in modo imparziale al proprio lavoro. Riconosco in queste caratteristiche, che ho definito ‘scientifiche’ per la capacità di autovalutazione, i riferimenti di una grande pittore.
Nelle opere più recenti vedo un’ulteriore articolazione della scena, uno sviluppo rispetto alle opere a fondo blu, quelle per cui avevo parlato di: ‘scatole di colore’.
Quelle geometrie fluttuanti fatte di velature e diversi toni di colore, oggi sono in buona parte sostituite dalla superficie ‘primitiva’ della lavagna. Un materiale, anche qui,
antico e povero, che Simone Geraci ha tradotto in scenografia storica e piano alternativo alla figura. Oltre ad essere una superficie ricca di belle imperfezioni, ha conferito
struttura e raffinata tessitura al dialogo con le figure. Così accade che le figure abbiano potuto riacquisire, dal ciclo dei blu ad oggi, una sembianza più terrena.
Allo stesso tempo le figure sono state incastonate tra porzioni di pietra dura; dove le ombre, ad esempio, avrebbero soltanto velato, oggi la pietra di lavagna sembra aver
logorato l’immagine. È questa strana viratura, della funzione della pittura di fondo, che mi intriga in queste opere più recenti. La soluzione di un supporto che oltre a conferire
fisicità ai corpi dipinti, li lacera come sciolti dal sole su una pietra millenaria. A mio parere si tratta di una soluzione geniale di dialogo, del supporto col concetto del
soggetto ‘figura’, che si manifesta coscienza nel momento in cui si appropria e sostituisce le ombre o uno degli strati della scena.
Oggi forse non parlerei più di ‘scatole di colore’, piuttosto di ‘profondità dell’assenza’, perché dove prima c’era una geometria di toni, oggi c’è una specie di volume di tempo,
che entra in risonanza con i corpi dipinti.
Antionio Sarnari
Terza dimensione, Curva Pura, Roma.